TESTIMONI DEL TEMPO La Brianza è una terra orfana di se stessa, fatta di segni cancellati e inghiottiti dall’ignoranza. È stata raschiata dalle pale meccaniche, le sue origini sepolte sotto paure nuove armate di croci e cemento. Che cosa si può creare in un luogo del genere? Massimo Bollani in questa terra c’è nato e ci vive, i suoi ultimi lavori sono una risposta indiretta alla domanda posta provocatoriamente. Si caratterizzano per la spiccata centralità conferita alla materia, che plasmata sulla tela diventa punto di partenza e stimolo principale del fare. Non si tratta di una “matericità” ottenuta con stratificazioni cromatiche dense, ma di una vera e propria pasta modellata e formata, sopra la quale il colore giunge in un secondo tempo, come deposito di polvere, patina o incrostazione. Non steso, pennellato, piuttosto lasciato piovere, ristagnare nelle cavità del supporto e penetrare nei pori della superficie, in modo che il tempo faccia la sua parte. L’associazione visiva fra questo tipo di trattamento e l’immagine di un muro esposto agli agenti atmosferici, istoriato dal trascorrere delle stagioni, è immediata. Il dato plastico è rafforzato dall’inserimento di impronte, piccoli oggetti inglobati e trame di segni incisi nel materiale fresco, così a volte il risultato finale somiglia più ad un rilievo dipinto che ad un dipinto aumentato di spessore. La presenza delle tracce impresse costituisce un richiamo ad alcune delle più antiche testimonianze culturali individuabili nel territorio brianteo e nelle sue vicinanze. Nella zona compresa sommariamente fra la Spina Verde di Como e il Monte Barro nel lecchese, sono presenti numerose incisioni rupestri, realizzate sia su affioramenti rocciosi, che su massi erratici deposti durante le grandi glaciazioni del quaternario; ancora più calzante è la similitudine con i motivi decorativi delle ceramiche prodotte dalla civiltà di Golasecca, cerchi semplici o concentrici, animali stilizzati e simboli solari, ottenuti tramite stampigliatura nell’argilla cruda. L’eco di tali espressioni riaffiora con insistenza nelle opere più recenti di Massimo Bollani, punteggiate da coppelle, cerchietti e piccole stelle, percorse da file di tratti corti ripetuti ossessivamente, fino a sembrare elementi di un rituale intimo e antico. Simboli e segni tracciati nella roccia, come nella materia rigonfia dei suoi lavori, accomunati dal potere di fascinazione e di attrazione che esercitano. Capaci di imporsi perentoriamente allo sguardo, suscitando nell’osservatore un appagante senso di famigliarità, ma rimanendo allo stesso tempo linguaggio estraneo ed arcano. Piacciono e disturbano, provocano domande alle quali è impossibile rispondere completamente. C’è un abisso di tempo e di significato fra le serie di tracce create dall’artista e le coppelle incise sulle pietre della Brianza. Le genti dell’età del bronzo e del ferro “leggevano” nei petroglifi informazioni utili per coltivare la terra e allevare animali secondo un ritmo cosmico, all’interno di un contesto dove le dimensioni del Sacro e del quotidiano costituivano un tutt’uno inscindibile. Ai contemporanei retrocessi dal progresso al semplice ruolo di spettatori, Bollani propone una linea di ricerca che, pur evocando archetipi primordiali, assume volontariamente un piglio più ludico e sperimentale. Libero dal vincolo di un interlocutore capace di interpretare il tessuto simbolico, può riportare la materia stessa allo stato magmatico, lasciandole il compito di suscitare gesti con cui reinventare gli antichi cieli caduti sulle pietre. Attenzione però, parafrasando un folgorante aforisma dello scultore Fausto Melotti: il gioco è una forma di libertà, ma la libertà è un gioco da prendere molto seriamente. David Arnaldo De Carolis